from L'illusione del bene, a novel by Cristina Comencini
Prima dell’incontro con Sonja mi svegliavo ogni mattina con la sensazione di essere un uomo in lutto. Non di una persona amata ma di un’idea del mondo, di un sogno. Mi chiedevo con rabbia come mai nessuno si interrogasse sulle ragioni della sua morte. Mi pareva anzi che la maggior parte della gente che conoscevo cercasse di non accorgersene. Vivevano senza passione la loro vita amputata dal sogno o fingevano che non fosse mai svanito. Io invece mi chiedevo incessantemente com’era avvenuto che ci fosse sembrato possibile, reale, realizzabile. Mi sentivo alternativamente in colpa per essermi risvegliato così tardi e colpito da improvvise nostalgie del passato, di posti che lo richiamavano, volti, giovinezze, speranze. Ero solo, inconcludente e rabbioso. L’unica cosa che mi appassionava era pensarci e parlarne.
Nelle serate fra amici cercavo senza successo di avviare il discorso.
“Ho una donna di servizio rumena, viene da me tre giorni la settimana. Ha letto i romanzi dell’Ottocento francese, li ha studiati a scuola, a Bucarest, prima di andare a lavorare in fabbrica: Zola, Victor Hugo, i grandi scrittori delle ingiustizie sociali, e i romanzi russi. Si chiama Eugenia, come Eugénie Grandet. Non è capace di contraddirmi. Ho provato a farle capire come potrebbe svolgersi tra noi una discussione: ‘Io ti dico una cosa, tu ne dici un’altra e ognuno sostiene la propria idea’. Fa cenno di sì, ma poi se le chiedo cosa pensa di una certa questione tace, mi guarda, mi scruta a lungo, e invece di rispondermi mi chiede a sua volta: ‘Che pensi tu?’. Intendiamoci, discutiamo di gerani da piantare sulla terrazza, di cibi, della spesa da fare – questi sono i nostri argomenti –, eppure non si fida. O semplicemente ha paura di contraddirmi.”
Un’amica seduta di fronte mi guarda severa.
“Gente che ha letto Zola costretta a piantare i nostri gerani!”
Mi sento subito in colpa, così invece di attaccare mi difendo.
“A Bucarest non riuscivano a vivere: da qui mantiene la famiglia, compreso il marito. E poi d’altronde è stato il comunismo a ridurre così il suo paese...”
Il marito della mia amica, urtato, si alza a prendere da bere dopo avermi lanciato un:
“Cosa c’entra? Lo sai che sei fissato? Passi dai gerani al comunismo! E tu le hai chiesto qualcosa del suo paese?”.
Rispondo alla sua schiena che si allontana.
“Certo. I primi tempi ci ho provato: le ho chiesto di Ceausescu, della sua fine, cos’è successo in quei giorni, se erano stati contenti, se erano scesi in piazza... Mi ha guardato in silenzio, un silenzio più lungo di quello dei gerani, e poi mi ha ripetuto: ‘Che pensi tu?’. È una donna sottile, intelligente, sensibile, ma non può esporsi né contraddirmi.”
Anche la mia amica si alza a prendere da bere.
“Sei il padrone, non le conviene.”
L’ultimo rimasto nell’angolo con me si allontana cambiando definitivamente discorso.
“Qualcuno prima o poi dovrà pur farla, una buona legge sull’immigrazione.”
Resto solo. Penso ai miei compagni di un tempo, alle discussioni senza fine. All’intimità delle sere, all’energia dei nostri anni. Dove sono finiti gli altri? Perché abbiamo smesso di interrogarci? Perché sono solo in quell’angolo di salotto?
Domande
1. Con quale sensazione si svegliava ogni mattina il protagonista?
2. Di che cosa si sentiva di essere in lutto?
3. Come viveva la maggior parte della gente che conosceva?
4. Cosa cercava di fare nelle serate fra amici?
5. E' riuscito?
6. Di dov'è la donna di servizio del protagonista?
7. Cosa si chiede quando gli amici lo lasciano?
8. Il protagonista è una persona soddisfatta della vita?
Risposte
1. Con la sensazione di essere un uomo in lutto.
2. Di un'idea del mondo, di un sogno.
3. Senza passione.
4. Cercava di avviare il discorso.
5. No.
6. Della Romania.
7. Dove sono finiti gli altri? Perché abbiamo smesso di interrogarci? Perché sono solo in quell’angolo di salotto?
8. No.